Un’area urbana carica di storia e suggestioni
Ormai, da tempo, testimoni viventi dell’esistenza del pozzo del Duomo non ce ne sono più, ma non tutto è dimenticato. Lo ricordava bene e ce lo descrive con la consueta arguzia Giuseppe Cava (1870 – 1940) il nostro Beppin da Cà, poeta dialettale, giornalista, uomo colto e verace, autentico self made man.
Intanto ci dice che il pozzo si trovava di fronte al campanile del Duomo, “nel piccolo spazio davanti alla casa di Leon Pancaldo”. Leon Pancaldo (1482 – 1538) altro orgoglio cittadino, nocchiero della Trinidad, la nave ammiraglia al comando di Ferdinando Magellano che per prima circumnavigò il globo, nonché autore del Roteiro, il diario di bordo che ci ha permesso di conoscere nel dettaglio le vicissitudini del travagliato viaggio.
Ora, Leon Pancaldo, oltre agli indubbi meriti geografici, scientifici, storici, etnologici, ha la caratteristica, comune a Cristoforo Colombo, di aver abitato dappertutto. 😂 La casa di cui parla Cava è quella, oggi scomparsa, della Scarzeria, una casa-bottega ereditata dal padre di professione tessitore. Un quartiere, l’antichissima Scarzeria, effettivamente prospiciente il sito del Duomo che all’epoca di Pancaldo non esisteva ancora. Ma il nostro navigatore aveva comprato e adibito ad abitazione per sé e per la moglie Selvaggia anche una casa con torre, tutt’ora esistente e dall’eloquente nome di Pancalda. Ci giunge notizia anche di soggiorni villerecci in quel di Roviasca, nella cascina di famiglia.
Lasciamo l’intrepido navigatore ai suoi traslochi e occupiamoci ancora del pozzo perduto. Abbiamo detto che il Duomo, nella sede in cui si trova da quasi cinquecento anni, ai tempi del Pancaldo non esisteva, infatti la Cattedrale della città, Santa Maria di Castello (edificata a partire dal IX secolo) era ancora sul Priamar, nella sua sede originaria, e dominava dall’alto il mare sul quale era come sospesa e la cittadella amministrativo-religiosa di cui era la punta di diamante. Distrutta dai genovesi nel 1595 per fare posto alla fortezza e piegare una volta per tutte l’orgoglio e le velleità indipendentistiche della gente di Savona.
Nel luogo dove si trovava il pozzo e dove avrebbero trovato sede la nuova cattedrale, intitolata a Nostra Signora Assunta e il suo sobrio campanile, sorgevano il convento e la chiesa di San Francesco. Il convento era dotato di due chiostri, di cui uno solo rimasto. Forse il pozzo faceva anticamente parte dell’area conventuale?
Tra amori, chiacchiere e forse un delitto
Giuseppe Cava lo racconta così com’era durante la sua giovinezza, negli anni ottanta del XIX secolo, quando il pozzo era luogo di teneri incontri tra gli innamorati. Le ragazze andavano a prendere l’acqua con la brocca e i giovanotti le aspettavano lì, per poter scambiare qualche parola e qualche bacio furtivo cӧ a galante (con la fidanzata) . Il tutto a tempo di record perché le madri erano dotate di una sorta di cronometro interno che le induceva a strillare dalla finestra il nome della figlia se la stessa si attardava in modo sospetto. Il nostro Beppin non trascura i dettagli di questo pozzo dei desideri, che “consisteva in un chiosco esagonale a cupola, d’un certo buon gusto architettonico, ed era il maggior monumero idrico del tempo, con un grosso rubinetto d’ottone a ciascun lato, meno quello retro in cui trovavasi la pompa a mano”. Sulla base della descrizione, abbiamo fatto qualche ricerca in rete e siamo giunti alla conclusione che il pozzo dovesse avere all’incirca le fattezze del secentesco Pozzo di Giano a Genova, probabilmente coevo.
Un bell’oggettino del quale i savonesi erano giustamente orgogliosi, salvo voltargli a tempo debito le spalle. Tutto bene, se si tralascia il fatto che “oltre il chiostro eravi pure il pozzo aperto per attingervi direttamente, quando la pompa si guastava” e che nel pozzo aperto capitava talvolta di trovare la carcassa di un gatto in putrefazione e, in un macabro caso, addirittura “il cadavere di una vecchia in camicia”! Ci domandiamo se la povera donna fosse caduta accidentalmente nel pozzo e o se qualcuno ce l’avesse spinta.
La minaccia viene dall’acqua
Non c’era da stupirsi, dunque, che l’acqua nelle caraffe rivelasse a occhio nudo la presenza “di animaletti d’ogni forma, rossi e grigi, sì da sembrare un acquario d’infusori in miniatura”. Nonostante la precauzione della bollitura – che non tutti praticavano – e l’aggiunta di aceto o zucchero, i casi di tifo erano tutt’altro che eccezionali. Nel resto della città numerosi erano i pregin (le fontanelle) a garantire il rifornimento idrico degli abitanti. I rituali, le chiacchiere, le dolci occhiate erano gli stessi e forse anche la qualità dell’acqua.
E per il bucato? Oltre al greto del torrente Letimbro, dove ‘e bugaije (le lavandaie) consumavano la salute inginocchiate sui sassi a lavare i panni altrui per portare qualche soldo a casa, in città erano disponibili i lavatoi, ormai quasi del tutto scomparsi. Rimane, a ricordo dell’immane fatica delle donne, il lavatoio della Darsena.
La travagliata storia dell’acquedotto
Le amministrazioni, ben consce dei rischi per la salute pubblica connessi al consumo di acqua batteriologicamente impura, avevano cercato di trovare una soluzione già dal 1812, quindi ancora in epoca napoleonica, quando era stato commissionato il primo studio di fattibilità per la realizzazione di un moderno acquedotto. Furono stanziati fondi ragguardevoli e indette gare d’appalto, ma le proposte avanzate non convincevano del tutto. Addirittura pare che si temesse l’infiltrazione di società straniere, cosa che induce a riflettere sul fatto che gli anni passano, passano i secoli, ma i problemi sono sempre gli stessi. La spuntò infine l’ingegner G.B. Cassinis che aveva proposto di convogliare in città le salubri acque sorgive di San Bartolomeo e Montenotte. Ancora intoppi, incertezze e divergenze di opinioni fecero slittare l’inizio dei lavori, affidati tramite convenzione nel 1888 all’ ingegnere Galopin Sue e a una cordata di imprenditori a lui facenti capo, cofondatori della Società Anonima Acquedotto di Savona. Le acque del Rio Cornaro, nel territorio quilianese, erano nel frattempo state individuate quale scelta migliore per “nutrire” il nascente acquedotto. Nel progetto era previsto un efficace sistema di pompaggio e filtri a base di sabbia, ghiaia e carbone per garantire un’ottima depurazione. Nel 1891 iniziò l’erogazione dell’acqua potabile che alle analisi si rivelò una delle migliori d’Italia. I problemi legati al consumo di acqua impura erano archiviati e Savona entrava finalmente, sotto il profilo infrastrutturale e sanitario, nell’era contemporanea.
Il destino del vecchio pozzo del Duomo, ahinoi, era segnato, com’era prevedibile in una città che ha subito tante incolpevoli distruzioni, ma altrettante – spinta da una tenace quanto discutibile cultura della modernità perseguita a tutti i costi – se le è procurate da sé. Non vogliamo rinunciare alla speranza che gli errori del passato, anche recente, inducano oggi a una maggiore consapevolezza.
Per me un’assoluta e preziosa novità. Grazie.
Grazir
molto interessante e documentato da memorie autorevoli….