Isabella D'Este

QUELLE VANITOSE DELLE NOSTRE ANTENATE

Chi meglio della signora della moda (nonché del mecenatismo illuminato e dell’arte della politica) Isabella d’Este, autentica icona del suo tempo, per introdurci nel mondo della moda rinascimentale, dove scopriremo risvolti inaspettati che coinvolgono la società in tutti i suoi aspetti.
L’Officio delle virtù

Abbiamo trovato traccia, nel nostro vagabondare nei testi storici che raccontano la Savona che non c’è più, dell’esistenza di una particolare istituzione detta Officio delle Virtù. Il nome incuriosiva e approfondendo abbiamo scoperto che si trattava di una vera e propria magistratura composta da sei cittadini, scelti tra quelli considerati, appunto, particolarmente virtuosi, incaricati di contrastare le cattive abitudini che avevano contagiato numerose donne in città, le privilegiate, quelle che ostentavano la ricchezza con abiti e gioielli ritenuti eccessivi. Siamo intorno al 1450 o giù di lì, ma già in precedenza le istituzioni si erano mosse a normare il fenomeno, sull’onda dell’emanazione delle leggi suntuarie in buona parte della Penisola nel XV secolo. Gli statuti comunali savonesi, almeno vent’anni prima, avevano stabilito limiti precisi alla vanità femminile. Nessuno trovava da ridire se, ad esempio, una giovane sfoggiava un abito nuovo e sfarzoso in occasione delle nozze, ma non le era consentito inaugurarne uno dello stesso livello prima che fossero trascorsi cinque anni. Per coloro che trasgredivano era prevista una multa di cinquanta lire (all’epoca erano palanche!) che dovevano essere equamente ripartite tra la chiesa, il molo – la cui manutenzione era costante preoccupazione dei savonesi – e l’accusatore. Anche il banchetto di nozze passava sotto la lente dei magistrati, in quanto “era stabilito intervenissero non più di venti persone, poi per dieci giorni consecutivi al matrimonio non dovevansi fare inviti pena lire quaranta, eccetto per i suoceri degli sposi”.

Chiaramente si incentivava la delazione e non è difficile immaginare gli spioni appostati dietro gli angoli delle strette vie cittadine nella speranza di intercettare l’incauta modaiola di turno, o intenti ad annusare voluttuosamente gli aromi proibiti che provenivano dalle cucine, ma questo aspetto poco edificante non preoccupava il legislatore cui premeva solo di “proibire l’immoderato lusso delle donne.

La questione sociale- carità e non giustizia

Quali erano le motivazioni di tanta severità? L’etica c’entrava fino a un certo punto, mentre la probabile molla che faceva scattare la censura era il timore di vedere incrinata la pace in una città che si era arricchita moltissimo con i commerci e le attività in cui eccelleva – la lavorazione della lana e della seta, della ceramica, la cantieristica navale, la produzione di sapone, di cera, l’attività delle ferriere – ma non aveva saputo né voluto distribuire con equità i profitti. In pratica i poveri erano tali per davvero e la loro sopravvivenza era affidata alle istituzioni benefiche (in primis gli ospedali che all’epoca non avevano solo la funzione di cura, ma anche quella di fornire “panno e pane” agli indigenti, nonché la dote alle ragazze senza mezzi) che si prodigavano ma non potevano da sole sanare i guasti della società. Alla luce di queste considerazioni era chiaro che l’ostentazione della ricchezza di pochi poteva suscitare la ribellione di molti.

Il minimalismo non ha spazio

Lasciando da parte la questione sociale senza puntare troppo il dito, in considerazione del fatto che nei seicento anni successivi è cambiato ben poco, proseguiamo la nostra esplorazione nel mondo delle fashion victims rinascimentali. Cosa indossavano le donne agiate del XV secolo? Abiti costituiti da una tunica sulla quale si infilava una sopravveste molto abbondante in quanto a stoffa impiegata, la pellanda, lunga sino ai piedi e oltre, aperta sulle maniche e sul decolleté e stretta in vita da una cintura o una fascia. Le case, anche le regge, erano gelide e questa stratificazione di vesti, oltre a dare un’impressione di opulenza, riparava dal freddo. I tessuti erano pesanti e costosi, il broccato, il damasco, il velluto la facevano da padroni, anche se non si disdegnava la calda lana e si impiegava con generosità la seta, coi suoi bagliori esaltati dalla luce delle candele e delle lampade a olio. Per chi poteva permetterselo queste stoffe, già di per sé pregiate, erano sovente intessute di fili d’oro o d’argento e, sempre per chi poteva, impreziosite dall’inserimento di perle e pietre dure. Le tinte erano vivaci e a contrasto, gli azzurri intensi, i rossi, gli ocra, ma iniziava a farsi strada il raffinato morello (“lanciato” da icone della moda come Lucrezia Borgia e Isabella d’Este) una sfumatura di colore tra il viola e il nero che donava luminosità all’incarnato delle signore. A questo proposito è interessante notare come si verifichi nel corso del XV secolo una continua trasformazione dei modelli di abbigliamento, trasformazione che tiene il passo di una società che cambia come mai prima d’allora era avvenuto, e si evolve dagli schemi tipici del Gotico a quelli propriamente rinascimentali.

Anche le pellicce, utilizzate soprattutto nelle bordature, erano molto richieste e a Savona un intero rione, l’Untoria (Unzaja) era dedicato alla concia di pellami di ogni tipo.

via untoria Savona

E quindi, cosa indossavano le savonesi? Le appartenenti alla upper class si rifacevano con ogni probabilità agli stilemi in voga nel resto della Penisola e forse anche in paesi molto più lontani, vista la commistione di genti e culture che da sempre ha caratterizzato la nostra città (gente mes-ce sun de Sann-a!). I popoli del nord Europa, nonostante la loro proverbiale frugalità 😆 e quelli degli esotici territori del mediterraneo orientale con i quali Savona intratteneva proficui rapporti commerciali, non avranno mancato di influenzare anche la moda. Il nostro porto, molto attivo, autentico ponte verso il resto del mondo, costituiva la principale fonte di notizie (anche frivole) provenienti da ogni luogo, nonché il luogo di sbarco di personaggi facoltosi, spesso esponenti di case regnanti, abbigliati con sfarzo, che di certo suscitavano invidia e desiderio di emulazione.

L’arte ci viene in aiuto

Restiamo comunque nel campo delle illazioni, visto che non ci rimangono molte testimonianze specifiche, ma un bell’esempio di abbigliamento femminile quattrocentesco in quel di Savona possiamo trovarlo nei lacerti dell’affresco del Maestro di casa Zoppi (1450 circa) raffigurante l’episodio biblico di Tobìolo e l’angelo. (Pinacoteca Civica di Savona)

La donna in primo piano che assiste alla scena indossa un copricapo voluminoso, una specie di turbante di un rosso acceso, appoggiato sulla fronte bianchissima e rasata secondo la moda del tempo. Porta una pellanda accollata di colore verde chiaro, stretta sotto il seno da una cintura. Le maniche, molto ampie, sono orlate di pelliccia e si aprono su altre maniche aderenti della tunica di un verde cupo. Accanto a lei una più anziana, forse la balia, sbucando appena da un pilastro, lascia intravvedere un abito color mattone su cui indossa un mantello scuro. Altre si scorgono appena, una, al lato opposto del pilastro, sfoggia una complicata acconciatura dei capelli biondi. L’ingiuria del tempo ha cancellato la parte inferiore dell’affresco impedendoci di osservare le calzature dei personaggi, che forse indossavano le poulaine, sorta di babbucce dalla lunghissima punta ricurva, molto costose e ambite.

(La scena è dominata dalla figura luminosa dell’angelo. Al suo fianco s’intravvede appena il giovane Tobìolo e al centro un uomo barbuto, anziano, probabilmente il padre infermo che Tobìolo curerà, seguendo le indicazioni dell’angelo, con la bile di un terribile pesce che ha catturato.)

affresco del Maestro di casa Zoppi (1450 circa) raffigurante l’episodio biblico di Tobìolo e l’angelo

Non si notano gioielli, forse ritenuti dal Maestro poco consoni al tema, ma dobbiamo immaginare che in occasioni meno serie ce ne fossero a profusione se, anche in tema di bijoux, il legislatore aveva ritenuto opportuno intervenire stabilendo che ogni donna non potesse sfoggiare preziosi per un valore superiore ai duecento ducati né portare più di sei anelli per mano! Beh, in effetti …

Immaginiamo che per la valutazione dei gioielli venissero chiamati degli esperti, con ogni probabilità i fraveghi (o fraighi) scomodati per l’occasione dal rione dove avevano casa e bottega – di cui rimane traccia nell’odierna via Orefici – che i vecchi savonesi d.o.c. indicavano come “in t’i fraighi”.

Sarà stato veritiero il giudizio dei fraighi? O si saranno tenuti bassi per non perdere la clientela?

Se poi una donna possedeva gioie per un valore superiore ai duecento ducati stabiliti, non poteva aggirare la legge indossandone di diverse a giorni alterni, ma doveva operare una scelta e usare sempre le stesse, lasciando le altre tra le mura domestiche.

Qual era la foggia dei preziosi del tempo? Si possono desumere interessanti informazioni dai ritratti del periodo. Il cammeo, ad esempio, era molto richiesto in quanto richiamava all’età classica, della quale era in corso un’entusiastica riscoperta. Spesso incastonato a pendente, si portava appeso a una collana. Anche le miniature che riproducevano il volto di un parente, possibilmente di alto rango, erano in voga e usate come patente di nobiltà, indossate come il cammeo. Le perle erano richiestissime e luccicavano al collo, ai lobi, intrecciate in lunghi fili tra i capelli o cucite sull’orlo di un velo leggero appoggiato sul capo. Gli anelli erano massicci, con montature importanti e grosse pietre tagliate in modo semplice. Il taglio Amsterdam sarebbe arrivato dopo parecchi secoli! Va sottolineato come si attribuissero alle pietre preziose proprietà taumaturgiche, infatti venivano indossate anche come scudo alle avversità. Stupefacente constatare come le pietre più apprezzate, rubini, smeraldi, zaffiri, provenissero dall’Asia sud orientale, transitando da Costantinopoli fino a raggiungere Venezia e Genova, partner commerciali di elezione con l’estremo Oriente. Nel complesso un’oreficeria di pregio per il valore dei materiali, ma che oggi definiremmo pacchiana.

La questione femminile – gli uomini tengono a bada le donne

La legge fissava nel dettaglio “quali vesti, cappelli, berretti, ornamenti e altri abbigliamenti dovevano indossare le donne sposate o no, per porre un freno agli eccessi del lusso muliebre” e, inoltre stabiliva che “il cittadino e distrettuale non deve permettere alla moglie e alle figlie vestiti sontuosi e troppo ricchi di panno”.

Ovvero, come due brevi frasi possono descrivere l’intera società. L’uomo, marito e padre, è il capo assoluto della famiglia e a lui spettano l’onere e l’onore di tenere a bada le donne di casa. Donne che per loro natura sono frivole e superficiali e hanno bisogno di essere condotte per mano sulla retta via. Anche quelle appartenenti alla classe privilegiata devono accettare di buon grado le regole stabilite da uomini, applicate da uomini.

La donna, dunque, sempre lei la pietra dello scandalo, da quando la prima allungò incautamente una mela al povero Adamo, colpevole solo di non avere saputo dirle di no. 😂

Se qualcuno poi si chiede che esito ebbero le leggi suntuarie, ebbene, si trattò di uno dei più grandi flop della storia.

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