UN’ISOLA NEL CUORE

Parliamo dell’Isola di Bergeggi, per scoprire – o riscoprire - storia, leggende, santità, tragedie, amore travolgente e uno scomodo dirimpettaio, un drago! Nello scenario di una natura incontaminata che deve restare tale.
Isola di Bergeggi

Se pensate che l’Isola di Bergeggi sia sempre stata dov’è, a poche centinaia di metri dalla costa, circondata dall’acqua cristallina dell’Area Marina Protetta Isola di Bergeggi, se lo pensate davvero, vi state sbagliando. E’ lì da millecinquecentoventitré anni, non uno di più. Poco importa che i Romani, almeno sei/settecento anni prima, le avessero dato un nome, forse un nome attribuito a qualcosa “fatto della stessa sostanza dei sogni” come direbbe qualcuno. Comunque il nome c’era, un altisonante, Insula Liguriae, Isola della Liguria, come fosse l’unica, ignorando clamorosamente la poco distante Gallinara, o Gallinaria.

Per chi non lo sapesse, fino agli ultimi scorci del V secolo d.C. l’isola faceva parte della costa nordafricana.  Se ne staccò per portare in salvo due sant’uomini perseguitati dai Vandali, o per meglio dire dal clero ariano, Eugenio, vescovo di Cartagine e il suo compagno di sventura, Vendemiale, vescovo di Capsa. Stiamo parlando dell’odierna Tunisia. Come una zattera di pietra percorse il Mediterraneo fino a raggiungere la costa ligure, dove si fermò. Gli abitanti del luogo accolsero con meraviglia – e come se no? – e con gioia l’isola e i profughi, i quali decisero di fermarsi (ohibò!) e di condurre sull’isola una vita di penitenza e di preghiera. A questo periodo, o a quello immediatamente successivo, risale la costruzione di una piccola chiesa di cui rimangono solamente le fondazioni.

I guai, per i poveri Eugenio e Vendemiale, non erano ancora finiti. Appena giunti sulla costa ligure furono informati della presenza di un terribile drago, stanziato in una “location” di tutto rispetto a dimostrazione del fatto che anche i draghi possono essere dotati di senso estetico, ovvero quella che oggi conosciamo come Grotta Marina di Bergeggi

Un drago cattivo, dunque? O al contrario, come per gli abitanti della vicina Vada Sabatia, una divinità da venerare? Che avessero ragione gli uni o gli altri esponenti delle due correnti di pensiero, del drago, senza ombra di dubbio, si sentiva il respiro mefitico, si udivano distintamente certe soffiate sibilanti che mettevano i brividi.

I due santi pellegrini, animati da un indicibile coraggio, affrontarono il mostro muniti solo della loro fede, brandendo un piccolo crocifisso. Il drago finì la sua esistenza affogato nelle acque profonde intorno all’isola e grandi furono il sollievo e la riconoscenza della popolazione. La metafora è chiara e sottintende la vittoria del cristianesimo sul paganesimo che ancora vigeva nella Vada Sabatia romana e forse potrebbe essere trasposta ai giorni nostri, quando il mostro che minaccia l’isola non è un lucertolone, ma sempre di mostro si tratta.

Eppure il drago, o i suoi discendenti, sfuggiti in qualche modo allo zelo religioso dei santi, continuarono a farsi sentire sibilando da un foro situato sopra la grotta. Solo banali lavori di manutenzione eseguiti negli anni sessanta del secolo scorso riuscirono a eliminare gli sbuffi inquietanti, questa volta senza bisogno dell’intervento divino.

 Da quel tempo mitico e per altro lungo tempo ancora, il luogo prese il nome di Isola di Sant’Eugenio. Nel 992 d.C.  Bernardo, vescovo di Savona, il primo dopo che la sede vescovile fu spostata da Vada Sabatia,  ordinò la costruzione di un monastero e di una chiesa per custodire (o traslare dalla prima chiesa diruta?) le spoglie del santo, affidando il centro monastico alle cure dei benedettini del monastero di Lerins, in Francia (vicino all’odierna Cannes).

Tutto bene quindi, non fosse che a questo punto, scartabellando nella storia, irrompe sulla scena un nuovo personaggio, Sant’Eugenio di Milano, meno intrigante e quasi del tutto sconosciuto, ma probabile titolare della dedicazione della chiesa e del monastero (il secondo?) edificato sull’Isola. Quest’altro Eugenio, nato e morto nell’VIII secolo, pare fosse giunto in Italia al seguito di Carlo Magno in veste di confessore. Sorge il sospetto che  venisse in qualche modo associato al vescovo di Cartagine solo per l’omonimia, nel corso di una evidente sostituzione agiografica di impronta carolingia. Anche il fatto che un franco fosse e sia tutt’ora definito “di Milano” lascia perplessi, se non si considera che il santo è in qualche modo da sempre associato al rito liturgico ambrosiano a seguito di un evento miracoloso che lo vide protagonista e che salvò – così narra la tradizione millenaria – le peculiarità del rito.

La confusione a questo punto è inevitabile, troppi Eugenii per non perdersi! Comunque, di certo c’è che sull’isola sono presenti resti suggestivi di: a) una torre circolare  di avvistamento di epoca romana,  facente parte di un sistema organico di controllo e comunicazione tramite fuochi presente lungo tutta la costa;  b) una torre quadrangolare di epoca medievale; c) le fondazioni dell’abside e poco più della prima chiesa, del VI secolo, attribuita al vescovo di Cartagine; d) alcune strutture di una seconda chiesa del X/XI secolo, con annesso monastero, forse dedicata al santo di Milano; e) avanzi di un edificio medievale, con ogni probabilità un fortilizio.

resti archeologici isola di Bergeggi

Fortilizio o nido d’amore? Conoscete la storia triste degli innamorati dell’Isola? Per raccontarvela dobbiamo spostarci inizialmente di qualche chilometro e raggiungere la Torre Coreallo in quel di Spotorno.

torre Coreallo Spotorno

Si dice risalga al X secolo, quando il Mediterraneo viveva sotto scacco dei Saraceni e la Repubblica di Genova, pare, l’aveva edificata per avvistare le imbarcazioni in avvicinamento. E’ qui che viveva un signorotto locale in compagnia dei due figli, Roberto e Ines. Durante un attacco saraceno e in assenza del capo famiglia, Roberto, per proteggere la sorella, le fece scudo con il proprio corpo e rimase ucciso. I pirati furono colpiti dal coraggio del giovane, dalle lacrime inarrestabili di Ines e dalla sua bellezza. Ne rimase colpito soprattutto il giovane Achmet, principe magrebino. Anche lui era bello e gentile e tra i due giovani nacque una tenera storia d’amore. Tutto congiurava contro quell’amore impossibile, ma il sentimento era più forte delle difficoltà e la storia  proseguì tra le mura di un castello che il giovane fece costruire – all’epoca ci si dava una mossa! – per la sua bella proprio sull’Isola di Bergeggi. Tra un viaggio e l’altro, visto che le scorribande erano tutt’altro che terminate, Achmet tornava sull’isola dalla sua innamorata. Dalla riva li vedevano passeggiare mano nella mano sotto gli archi di un porticato e non è difficile immaginare i commenti malevoli della gente. Poteva continuare così? No di certo. Genova allestì una flotta con l’intenzione di distruggere il covo e il principe.  Achmet, avvisato del pericolo, fu costretto ad allontanarsi, non prima di aver consegnato a Ines un anello che portava incastonata una pietra dai poteri soprannaturali che si sarebbe scurita se il giovane fosse stato in pericolo. Indovinate chi era a capo della flotta genovese? Il padre di Ines e del defunto Roberto, animato senza dubbio dal desiderio di vendetta. Achmet fece in modo di incontrarsi segretamente col padre furioso per avvisarlo della presenza della giovane nel castello, dopo di che si allontanò con le sue navi. Di lui non si seppe più nulla e di lì a poco la pietra si scurì, cosa che portò la povera Ines alla disperazione, una disperazione che finì per condurla alla tomba. Stessa sorte per il castello che andò rapidamente in rovina, il che induce a pensare che fosse stato costruito in fretta, sì, ma senza cura. Nel frattempo i monaci benedettini edificarono sull’Isola un monastero, forse il secondo,  quello “commissionato” dal vescovo Bernardo, e vi si stabilirono conducendo una santa vita, dando ospitalità a chi la chiedeva, ai naufraghi e a chiunque ne avesse bisogno, anche a un vecchio pellegrino che guardava sospirando e piangendo le rovine del castello, invocando il nome di Ines. Era Achmet, naturalmente, tornato invano sull’isola per riabbracciare l’amata e concludere con lei la sua esistenza. Sarà per questo esito sventurato di un ancor più sventurato amore, che nelle notti di luna piena si possono ancora vedere due giovani innamorati che passeggiano sull’isola, tenendosi per mano, finalmente insieme.

innamorati Ciceroni a Savona

Un’altra storia drammatica – e purtroppo vera – che ha come scenario le acque  e i fondali dell’Isola, è quella dell’affondamento del Transylvania. Per chi ne avesse voglia, invitiamo a leggere un nostro precedente articolo “Il Transylvania dorme sotto i nidi di gabbiano”.

naufragio del Transylvania Savona

I nidi di gabbiano, appunto, quali indicatori di una natura che si è riappropriata dell’Isola e del mare intorno. Lo scoglio giunto dall’Africa, come narra la leggenda, è giustamente tornato a essere quello che era, quello che deve essere, un piccolo miracolo della natura dove l’uomo, con le sue malefatte, non è ammesso, o tutt’al più può entrare in punta di piedi chiedendo permesso. Immerso in un mare protetto da un parco marino che, nelle intenzioni di qualche politico illuminato di cui si sono perse le tracce, avrebbe dovuto allargare i suoi confini per comprendere ancora più biodiversità, ancora più delfini, ancora più verduin (noi li chiamiamo così) piccoli squali gentili che non hanno mai fatto male a nessuno. E poi ogni specie di creature del mare, comprese alcune che si trovano solo qui.

Siamo nel Pelagos, il Santuario Internazionale dei Mammiferi Marini, un’istituzione che merita il nostro rispetto, nata per proteggere queste meravigliose creature e il loro habitat. Un patrimonio naturale da custodire, studiare, salvaguardare da ogni insensato tentativo di causarne la fine.

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