Metti una stagione strana che ti fa indossare un giorno il piumino e quello dopo la camicia. Metti la natura intorno che, pure lei, non sa più dove andare a parare e alterna teneri boccioli a rami secchi e tristi, giornate tiepide a venti gelidi e improvvisi che quei boccioli fanno cadere miseramente a terra. Metti che il calendario, implacabile, ti ricordi che la Pasqua e lì, dietro l’angolo.
E allora, vogliamo prepararla o no una bella, classicissima torta Pasqualina? Con quel sapore d’infanzia, con quei ricordi struggenti di mamme e nonne “con le mani in pasta”? Sembra facile! Perché la Pasqualina è una questione delicata. Intanto, da dove viene costei? Viene da molto lontano, le prime notizie risalgono addirittura al XV secolo, ma non si esclude che le origini siano ancora più antiche. E chi l’ha inventata? Di certo una massaia ligure, abituata, come tutte le donne liguri, a ricavare il massimo dalle risorse povere offerte da una terra tanto avara quanto bella.
Comunque, per i liguri, la Torta Pasqualina è una faccenda seria e non lo è solo adesso, ma lo è sempre stata, al punto che un tale Martin Piaggio, poeta dialettale di non eccelsi meriti vissuto a Genova tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento, ne fu ispirato e le dedicò i versi che riportiamo:
Beneita mille votte e benexïa
E benedetta quella magnettinn-a,
Chi sa fâ ûnn-a Tortetta Pasqualinn-a
E ve-a presenta cäda e brustolïa;
Beneito sae quell’êuggio chi l’ammïa,
e quell’ӧdô ch’a manda da vixinn-a;
l’erbetta, o coccon fresco de pollinn-a
e quella prescinsêua chi scappa via;
Beneita segge a meizoa cӧ cannello,
o siäso e a faenn-a chi se lascia tiâ,
e l’êuio chi ven zù cumme ûn spiscioello;
Beneitu segge o forno cӧ furnâ,
o testo, o tondo, a ciûmma cӧ cotello
e quella bocca chi ne pêu mangiâ!
Non solo il Piaggio, si occupò della Pasqualina, ma anche, e ben prima di lui, Martino de Rossi, detto Maestro Martino, cuoco dei papi nel XV secolo, Ortensio Lando e Bartolomeo Scappi, grandi esperti di cucina e autori di testi di arte culinaria nel XVI secolo, che per primi riportarono il termine Gattafura, poi caduto in disuso, per indicare appunto la Pasqualina. Seguiti nel tempo da numerosi altri che diedero la loro interpretazione di questa gustosa ricetta, aprendo forse il varco alle polemiche che ancora oggi infiammano la discussione, carciofi sì, carciofi no, ripieno a due strati o ad uno strato solo e via battibeccando.
Tace su questo, con nostro stupore, Pellegrino Artusi, di cui abbiamo invano setacciato un vecchio tomo, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, edizione del 1919, che tra principii, trasmessi, rifreddi e cucina per stomachi (sic!) deboli, non si prende la briga di inserire la Pasqualina, forse a causa della netta connotazione regionale, nel suo celeberrimo testo.
La ricetta
La ricetta tradizionale richiede tempi biblici e capacità di tutto rispetto. Ve la sentite di preparare una pasta composta di ventisette strati (o addirittura trentatré, come gli anni di Cristo) che durante la cottura devono separarsi lievemente gli uni dagli altri fino a formare una sorta di leggerissimo millefoglie? Ma chi ha detto che non si possa preparare una Pasqualina dignitosa anche senza essere la regina o il re del mattarello?
Per cui, impastate un chilo di farina con acqua, sale e tre cucchiai d’olio. Dividete il morbido impasto che avrete ottenuto in un congruo numero di panetti che lascerete riposare (“coperti come la faccia di Dio”, anche questo è un modo di dire, di ineffabile poesia, che giunge da un remoto passato) sotto una picagetta, ovvero uno strofinaccio da cucina. Prendete delle bietoline (e gè) , diciamo tre mazzetti, ben lavate e sgrondate con cura, eliminate le coste, e tagliatele a listarelle sottili che adagerete in padella, su un letto di cipolla, prezzemolo, burro e sale. Lasciate che le bietoline cuociano lentamente e solo a cottura ultimata mescolatele in un grilettӧ (ciotola) con parmigiano grattugiato e qualche fogliolina di persiga (maggiorana). Se volete fare i duri e puri aggiungete a prescinseua , una sorta di formaggio al primo stadio di lavorazione, il cui sapore leggermente acidulo vi darà l’orgoglio di aver seguito alla lettera i dettami degli avi. Nulla vieta però che a prescinseua possa essere sostituita da un’altra cagliata di latte vaccino, meglio se biologica.
Niente carta forno, per carità! Qui ci vuole un testo dal bordo abbastanza alto, unto con olio, sul quale adagerete, una alla volta, le sfoglie tirate a mattarello (ӧ cannello), sottili sottili, che ricaverete eroicamente dai numerosi panetti di pasta lasciati a riposare sotto e picagette, ungendole con un pennellino (la tradizione vorrebbe la piuma o il mazzetto di prezzemolo) perché non aderiscano le une alle altre rendendo vana la vostra fatica.
Quindi, delicatamente, aggiungete il goloso ripieno, ricavando nello stesso un certo numero di fossette nelle quali romperete un uovo. Uno per ogni fossetta. Questo espediente renderà spettacolari gli spicchi che ricaverete dalla vostra Pasqualina! Lo stesso lavoro certosino andrà ripetuto per ricoprire l’impasto con altre sfoglie sovrapposte. Non rimarrà a questo punto che rivoltare delicatamente il bordo di pasta per formare un cordoncino di chiusura che andrà bucherellato con la forchetta per garantirne la cottura e per sigillare il ripieno. Una leggera passata di pennello, o piuma, o mazzolino di prezzemolo, in superficie e via, in forno, per un’oretta, a temperatura media.
Fatto. Semplice, no? Non resterà a questo punto che inebriarsi del delizioso aroma che invaderà la cucina durante la cottura e godersi i complimenti dei fortunati commensali. A noi invece non rimane che aspettare le inevitabili critiche dei puristi della cucina ligure che troveranno un bel po’ di difetti alla nostra ricetta. Perché in Liguria ogni provincia, ogni famiglia, ogni cucina ha la sua e da noi – per fortuna! – il mugugno è libero!