Per chi non avesse presente il quartiere di Lavagnola, possiamo assicurare che in apparenza non è cambiato molto da quel lontano 1865, anno in cui avvennero i fatti. Si estende all’incirca nello stesso perimetro che occupava al tempo, sulla riva sinistra del Letimbro, a un chilometro o poco più dalla foce. Una sequela di vecchie case, la maggior parte delle quali affacciate direttamente sull’alveo del torrente, ché ancora adesso se ci fosse l’acqua, che non c’è quasi mai, e ci fossero i pesci, che forse non ci sono mai stati, si potrebbe gettare una lenza e pescare dalla finestra. E’ l’antica contradade bügaije, ovvero delle lavandaie, le povere tra le povere, quelle che sovente pagavano con la vita il destino di avere “la madia troppo vuota e la cesta troppo piena”.
Al presente le case sono state ristrutturate, abbellite, riempite di anacronistiche parabole, ma nell’insieme conservano quell’aria dimessa che le vecchie fotografie sgranate hanno tramandato così bene.
Correva l’anno 1865, dunque, e nella contrada di Lavagnola, così come altrove, non ci si stupiva se un marito redarguiva energicamente la moglie. Difficile che qualcuno andasse a chiedere ragione di urla, tonfi, pianti e suppliche. Gli uomini tornavano a casa sfiniti dalla fatica (che le donne lo fossero altrettanto dopo una giornata passata a lavare i panni altrui nel greto del torrente, poco importava) e il vino faceva il resto. Quasi tutti passavano dall’osteria prima di rincasare, per ottenebrarsi a dovere di vinaccio scadente, ӧ cancarӧn. Chi aveva il vino buono, cioè chi tutto sommato era di indole tranquilla, si limitava a dormire, piangere (“ӧ l’ha a pecundria” trad. ha l’ipocondria, si commuove) cantare, perdere il controllo degli sfinteri. Chi l’aveva cattivo di solito sfogava le frustrazioni ai danni della moglie. Eppure, nessuno trovava da ridire in merito a quel consolidato malcostume domestico, nella migliore delle ipotesi lo si considerava un male inevitabile, una piaga sociale difficilmente rimarginabile.
Però da tempo, da quei due locali umidi e scuri affacciati sul cortile presi a pigione da tale Giovanni Cerro, conosciuto come ӧ Claӧdin dӧ Giabbe, provenivano tali e tanti schiamazzi da impensierire. Si diceva che il Claӧdin fosse avaro, di un’avarizia patologica che lo portava ad affamare la famiglia e geloso alla follia della consorte. Qualche motivo di esserlo probabilmente l’aveva. Lei non era avvenente, ma conservava traccia di quella bellezza dell’asino che la vita grama non era ancora riuscita a cancellare. Aveva trent’anni la signora Bonifacino maritata Cerro (il nome di battesimo non è pervenuto) quando il Claӧdin ne aveva già compiuti quarantacinque. I quindici anni di età che separavano i coniugi, anche all’epoca non erano ritenuti pochi.
Nell’indifferenza generale la situazione precipitò, fino alla notte del due febbraio quando Claӧdin la uccise. Una scena da tregenda. I vicini affermarono in seguito di averla sentita implorare pietà , ma di non essere intervenuti credendo si trattasse della solita scenata di gelosia. Gli stessi giuravano peraltro sull’onorabilità della Bonifacino, descritta come timida e modesta.
Il fatto che la giovane donna fosse considerata una vittima già prima della morte e l’efferatezza del delitto provocarono una specie di sollevazione popolare nei confronti del Claӧdin. La poveretta era stata uccisa in modo bestiale, per la precisione “mediante soffocamento ottenuto con la compressione dell’esofago”. La bocca le era stata riempita di terra o di cenere (non è chiaro) perché la smettesse una buona volta di lamentarsi.
Il processo ebbe luogo per direttissima, sull’onda dell’indignazione che da Lavagnola si era diffusa in tutta la città. Dagli atti processuali, oltre al degrado e alla miseria in cui era maturato il delitto, emerge la probabile infermità mentale dell’uomo. Claӧdin, sorridente e affabile nel corso dell’interrogatorio, rispondeva con calma olimpica, nonostante la balbuzie che lo affliggeva, alle domande che gli venivano rivolte, sostenendo che la moglie fosse morta per cause naturali, per non meglio identificati “dolori di stomaco” che lui aveva cercato di alleviaremassaggiando la parte e arrivando al punto di “prepararle il caffè” nell’estremo e dispendioso tentativo di aiutarla. “Che dite?” pare tuonasse a quel punto il presidente della Corte d’Assise, al colmo dello sdegno “Non avete forse tolto voi stesso dal letto vostra moglie, non l’avete sdraiata su di una panca per poter meglio strangolarla?”
Claӧdin negò fino all’ultimo. Anche la faccenda della panca era stata, secondo lui, una sorta di manovra rianimatoria ante litteram. L’unica ammissione fu di averle tappato la bocca, perché straziato dai suoi gemiti. La sentenza fu di piena condanna e l’uomo fu riportato nelle carceri di Sant’Agostino, in attesa dell’esecuzione capitale.
Da lì, il giorno stabilito, fu condotto a piedi fino al luogo del supplizio, affiancato dal cappellano che lo esortava al pentimento e circondato da un drappello di carabinieri incaricati di proteggerlo dalle intemperanze della folla che lo insultava. Soprattutto le donne, che si sentivano chiamate in causa dalla tragedia, gli rivolgevano coloriti epiteti che non è il caso di riportare. C’era, si dice, chi precedeva il corteo del condannato correndo per il timore di arrivare a cose fatte. Claӧdin, con un guizzo di macabra ironia, pare dicesse “Perché corrono? Tanto senza di me la festa non comincia!”
Eppure, quella folla che tanto lo aveva detestato e coperto di improperi cominciava a provare orrore di ciò che stava per accadere. Già qualche giorno prima, non c’era stato verso di trovare operai disposti a preparare la forca, le autorità avevano dovuto chiamare gente da Genova per farlo. E anche il boia era foresto.
Lo aspettavano sulla strada degli arenili, alla foce del fiume, nello spiazzo antistante il cimitero, arroventato dal sole di luglio. Lì era stato eretto il palco. Lì, in un silenzio atroce, l’uomo fu appeso al cappio. La corporatura tarchiata e tozza, così dicono le cronache, impedì che le sue sofferenze avessero termine in breve tempo. Dovette intervenire il boia, con manovre impossibili da riferire, per abbreviargli l’agonia. La folla, inorridita, maledisse a quel punto il carnefice e la pena di morte in genere.
Claӧdin dӧ Giabbe, l’ultimo giustiziato nella città di Savona.