L’undici di novembre si festeggia Martino di Tours, una di quelle figure ricche di fascino che hanno attraversato la storia del Cristianesimo dagli albori, da quel quarto secolo dopo Cristo in cui cominciava ad affermarsi la nuova religione, tra persecuzioni (l’editto di Costantino del 313 era stato emanato appena tre anni prima della nascita di Martino) e conversioni clamorose. Infatti Martino era figlio di genitori pagani – pur avendo abbracciato la fede cristiana all’età di dieci anni – originari della Pannonia, figlio di un padre soldato ed egli stesso soldato di ciò che restava dell’invincibile esercito che aveva fatto grande Roma.
Qualcosa di nuovo e inaspettato stava nascendo, il Cristianesimo appunto, qualcosa che avrebbe cambiato il modo di pensare della gente, che avrebbe forse finito per distruggere l’Impero (anche se oggi gli storici sostengono che i cambiamenti climatici furono la vera causa della sua lenta agonia, il che dovrebbe farci riflettere parecchio) qualcosa che aveva toccato il cuore e la mente del giovane Martino. Famoso l’episodio che narra di questo soldato pietoso che taglia in due il suo mantello per coprire un mendicante, forse meno noto ai giorni nostri il sogno che Martino raccontò di aver fatto la notte stessa, sogno nel quale il Cristo lo ringraziava dicendo “sono io quel mendicante che tu hai riparato dal freddo”.
Profondamente colpito, Martino chiese il battesimo che ancora, nonostante la fede in pectore, non aveva ricevuto, ma dovettero passare sette lunghi anni prima di poter abbandonare l’esercito e imboccare la strada che aveva sempre sentito di dover percorrere. Il romitaggio era il suo compito terreno, lo sapeva, e la cura del gregge di Dio, nonché la ferma contrapposizione all’eresia ariana allora imperante che gli procurò non poche difficoltà. Difficile fermare un uomo così profondamente conscio di ciò che vuole, anche se molti provarono a farlo. L’amore per i poveri, i numerosi miracoli, il rifiuto della carica di vescovo – che dovette poi rassegnarsi ad accettare, svolgendo però buona parte del suo ministero dalla povertà assoluta del convento di Marmoutier – gli procurarono l’amore del popolo e la santificazione.
Nel mondo esistono migliaia di chiese dedicate a lui, quattromila solo in Francia, ed una piccolina, una cappella, si trova a Savona. E’ un delizioso piccolo edificio, posto alla base di un ponte medievale, il ponte di San Martino appunto, edificato nel 1264 per volere del podestà Simone Doria, come ci ricorda l’iscrizione alla base di un bassorilievo di anonimo scultore ligure, che rappresenta il Cristo Pantocratore tra due angeli.
Una piccola nota a margine, questo Simone Doria non era un personaggio banale. Esponente della corrente genovese dei podestà/trovatori del XIII secolo e incaricato del governo della città di Savona dall’opprimente Genova, pare si interessasse più alla passione letteraria che all’impegno istituzionale o meglio che alternasse l’una all’altro con grande scioltezza. Le sue liriche, di non facile comprensione in quanto scritte in volgare occitano, indulgono talvolta in versi licenziosi e ironici.
Il campanile, dell’XI secolo, ha superato indenne guerre e terremoti,
mentre la cappella fu riedificata nel XIX secolo mantenendo lo stile architettonico originale. E’ davvero minuscola, commovente, e ad onta delle dimensioni esercita da nove secoli la funzione di onorare il soldato fattosi servo di Dio e degli ultimi della terra, quel Martino che peregrinò a lungo per l’Europa e fu ospite anche della Liguria, avendo vissuto per quattro anni, probabilmente dal 356 al 360, in una grotta dell’isola Gallinaria, di fronte alla costa di Albenga.
Quanto la figura del santo abbia profondamente influenzato la cultura e la pietas popolare, lo dimostrano fatti e consuetudini giunti fino a noi. Eccone alcuni.
Il termine cappella, con il quale indichiamo un piccolo edificio religioso, solitamente dedicato ad un santo o alla Vergine Maria, pare derivi dal nome del mantello di Martino, che i romani chiamavano appunto cappella (piccola cappa).
La data dell’11 novembre non è quella della morte, avvenuta tre giorni prima, l’8 novembre 397, ma della sepoltura di Martino a Tours, dopo che la sua salma era stata trafugata nel corso di un’accesa disputa tra gli abitanti di Tours e quelli di Poitiers.
In passato l’undici novembre era la data di inizio dei contratti di mezzadria nel mondo agricolo. Questo perché i lavori della campagna a quel punto erano compiuti e la terra si preparava al lungo sonno invernale. I mezzadri – nel Savonese detti manenti – che non avevano avuto il rinnovo del contratto (nulla di nuovo sotto il sole) lasciavano con tutte le loro masserizie il podere, ӧ scitӧ, in cerca di una nuova sistemazione. Han fetӧ San Martin, dicevano i vecchi savonesi, ovvero “hanno traslocato”.
La prima decade di novembre, spesso caratterizzata da tempo insolitamente mite, viene detta estate di San Martino, per ricordare il tepore del mantello che salvò il mendicante dal morire di freddo. E ancora, il detto, sempre legato al mondo contadino, a San Martino ogni mosto diventa vino, oltre ad indicare un periodo ben preciso nel calendario, allude forse al fatto che in uno dei suoi miracoli il santo trasformò l’acqua in vino, come il suo Maestro, fatto questo che lo fece divenire il protettore degli osti.
Curioso infine il fatto che, nella vicina Francia, gli orsacchiotti di peluche si chiamino tutti Martin (pronuncia Marten). Anche in questo caso esiste con ogni probabilità un legame con la figura del Santo, forse un miracolo che ha visto un orso come protagonista, ma di questo non siamo affatto certi e pertanto ci rimettiamo … alla clemenza della Corte!
P.S.
Se avete nervi saldi, cuore impavido e una passione per il paranormale, venite a Savona la notte di San Martino e avrete forse la fortuna di scorgere un’ombra che si aggira nei pressi della cappella. E’ lo spirito di Erminia, la giovane lavandaia che si gettò dal ponte per sfuggire al suo persecutore, un signorotto medievale di nome Gincourt. Due angeli la raccolsero prima che toccasse terra e la portarono in cielo, mentre il Gincourt non ebbe modo di scampare alla rabbia del popolo della Contrada di Lavagnola e fu lui a finire sfracellato sul greto sassoso del torrente.
Un modo per non dimenticare la piaga della violenza sulle donne che ha attraversato i secoli e ancora adesso ci affligge. Non sempre, purtroppo, arrivano gli angeli in soccorso.