Se è vero che sono stati i Romani i primi ad avere l’idea di impastare farina di farro con le uova, di friggerla nel grasso di maiale e intingerla nel miele durante i Saturnalia – secondo i dettami trasmessi da Marco Gavio Apicio nel trattato di cucina De re coquinaria (peraltro costituito come raccolta di frammenti in epoca successiva, o rimaneggiamento di altro testo precedente) – ebbene, se è vero, non abbiamo inventato alcunché. Ma se, per pura ipotesi, non fosse così … allora le frittelle di Carnevale le avremmo inventate noi! Non per niente le abbiamo chiamate bugie!
Bӧxïe, per la precisione. Ma ogni regione ha la sua versione e soprattutto il suo nome. Chiacchiere, zeppole, castagnole, fritole, sfrappole, frappe, risole, strufoli …. ma non finisce qui. Pellegrino Artusi, ad esempio, le chiama “Cenci”. In effetti, quell’aria da stracci di lusso, goduriosi e ammaliatori ce l’hanno tutta. Ecco la ricetta del Maestro:
Farina, grammi 240 / burro, grammi 20 / zucchero in polvere, grammi 20 / uova, n. 2 / acquavite, cucchiaiate n. 1 / sale, un pizzico.
Fate con questi ingredienti una pasta piuttosto soda, lavoratela moltissimo con le mani e lasciatela un poco in riposo, infarinata e involtata in un canovaccio. Se vi riuscisse tenera in modo da non poterla lavorare, aggiungete altra farina. Tiratene una sfoglia della grossezza d’uno scudo, e col coltello o colla rotellina a smerli, tagliatela a strisce lunghe un palmo circa e larghe due o tre dita. Fate in codeste strisce qualche incisione per ripiegarle o intrecciarle o accartocciarle onde vadano in padella (ove l’unto, olio o lardo, deve galleggiare) con forme bizzarre. Spolverizzatele con zucchero a velo quando non saranno più bollenti. Basta questa dose per farne un gran piatto. Se il pane lasciato in riposo avesse fatta la crosticina, tornatelo a lavorare.
Non viene voglia di provarla subito? Non fosse altro che per rendere omaggio al lessico fiorito del grande Artusi?
E per restare in tema di Carnevale, con i suoi cibi e le sue pasquinate, Savona ha una lunga, prestigiosa tradizione carnevalesca. Il periodo di maggior fasto fu quello a cavallo tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la Belle Epoque per intenderci. Ci informa Giuseppe Cava, giornalista, scrittore, poeta dialettale, acuto osservatore nonché autentico orgoglio cittadino, che “è dal 1886 che ebbero inizio a Savona i veri Corsi Mascherati con carri grandiosi e mascherate a piedi numerosissime e indiavolate”. I Carusezi! Ne parlavano i vecchi ed eccoli qua! E con questi i veglioni e i balli in maschera con grandi abbuffate di bӧxïe. Poi, la pausa tragica delle guerre mondiali e infine la rinascita dello spirito carnevalesco con l’invenzione nel 1953, ad opera del pittore Romeo Bevilacqua, della maschera di Cicciӧlin, il Re del carnevale savonese, di cui abbiamo parlato diffusamente in un articolo del febbraio 2020. Immagine tratta dal libro “Albisola … c’era una volta” di Dell’Amico, Gervasio e Nicolini – edizioni Il Letimbro
Per tornare alle bugie, la nostra ricetta a chilometro zero non si discosta granché da quella del vecchio crapulone Apicio. In linea di massima, fatte salve le impercettibili varianti familiari, impastiamo trecento grammi di farina, cinquanta grammi di burro, due uova intere, mezz’etto di zucchero, la scorza grattugiata di un limone biologico, una presa di sale, due cucchiai di Marsala.
Tiriamo la sfoglia piuttosto sottile, la suddividiamo in rettangoli o in strisce (che si possono accomodare a nodo) e friggiamo velocemente in olio bollente. Una leggera spolverata di zucchero a velo, quando le bugie sono fredde, e il gioco è fatto!
Oggi, con buona pace di Marco Gavio, nessuno si sogna di usare lo strutto, ma il più nutrizionisticamente corretto olio di semi (di qualità!), la farina è di grano e l’aggravante del passaggio nel miele non è prevista. E soprattutto, la differenza tra una bugia eccellente e una mediocre è data dall’abilità di chi frigge, dall’esperienza, la passione e l’occhio, ovvero quel complesso di cose che fanno sì che l’olio non giunga al punto di fumo, che la permanenza della pasta in padella sia della giusta durata, per ottenere quella consistenza friabile, quella leggerezza, quell’assenza di untuosità che sono le caratteristiche imprescindibili di un’ottima bӧxïa.
Mai provate quelle ripiene? Fatte a raviolo con un cuore di marmellata o di cioccolata? Certo, una versione più recente e con un costo che in passato sarebbe stato difficilmente sostenibile, ma assolutamente da non lasciarsi sfuggire.
Vogliamo concludere con un pizzico di humor nero. I vecchi savonesi, in vena di burle carnevalesche, raccontavano di una donna rimasta improvvisamente vedova, la quale, forse per tirarsi su il morale, aveva preparato delle bӧxïe. Quando stava per iniziare a gustarsele in santa pace, i vicini di casa suonarono alla porta per portare l’ultimo omaggio al defunto. Per evitare imbarazzi la vedova pensò bene di nasconderle sotto il letto dove era composto il pover’uomo. I visitatori cercavano di confortare la donna con le solite frasi di circostanza. “Ch’a se fasse curaggiu! A l’è ‘a vitta!” Al che la vedova inconsolabile, che osservava impotente l’andirivieni del gatto di casa impegnato a portar via, uno dopo l’altro, i dolci dal piatto, rispondeva sospirando “Eh scì … ün pe ün se ne van tutti!”